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I lavori di Alfred Drago Rens degli ultimi 10 anni, cicli successivi che si raccontano uno dopo l’altro, uno nell’altro, uno con l’altro…
E un testo in cui l’autore racconta l’origine e gli esiti della sua ricerca fino a oggi.
Avete mai contato quante immagini vi scorrono davanti agli occhi ogni giorno? Pare che nell’arco della sua vita un uomo medievale entrasse in contatto con poco più di 40 immagini artificiali. Oggi, per noi, sono circa 400.000 al giorno.
E aumentano sempre più.
Ma di tutte queste immagini che usiamo (e che ci usano) a noi cosa rimane?
Oggi più che mai la consapevolezza del nostro guardare è diventata fondamentale, e quello che io propongo con i miei lavori vuole essere un esercizio di presenza visiva. La cerco in quello che ho intorno, che trovo tra le cose dimenticate, e il mio campo privilegiato è la fotografia vernacolare.
Quella senza intenti artistici, che serviva solo a ricordare la bellezza di un momento o di un volto. Immagini di vita vissuta, cadute nell’oblio di una cantina e recuperate nei mercatini dell’usato. Le foto di questo tipo, scattate in analogico, si sviluppavano su pellicola e poi venivano stampate su carta pregiata. Operazione costosa che richiedeva cura e attenzione, e gli album ne diventavano il prezioso archivio.
Oggi, le nostre immagini sono scattate in digitale con un telefonino, si pubblicano on-line a costo zero, si pubblicano sui social e vengono (da loro) usate come merce. Quindi il valore non è più solo mnemonico.
Prima le vedevano in pochi, oggi sono alla portata di tutti. Prima erano inutili, nel senso che non rendevano nulla, oggi, in quanto merce di scambio, producono denaro.
Ci rendiamo sempre più conto che le immagini della nostra vita ci appartengono sempre meno. Percepiamo chiaramente che raccontano di un presente apparente, spersonalizzato, codificato, giudicante, mentre ogni vecchia foto che mi trovo tra le mani mi racconta di una vita ancora piena di mistero e straordinariamente ricca di presenza.
Vedo le persone, e questo mi commuove.
Sono belle. E la loro bellezza è da cercare non solo nella inconsapevole verità dei gesti delle persone, ma anche nella qualità della carta, nel colore che ha preso nel tempo, negli strappi o nelle macchie di umidità e
di inchiostro. Nelle note scritte a mano sui retri, nelle date, nelle dediche, nei marchi e negli indirizzi dei fotografi o nei codici degli archivisti.
La foto vernacolare affonda i piedi nel terreno sottovalutato della realtà, della nostalgia, dell’intimità e della morte. Moniti necessari alla vita. Il narcisismo di questa era che filtra come valido solo ciò che è speciale,
mi restituisce la potente umanità di questi vecchi, banalissimi, ritratti.
E in un mondo dove i nostri corpi saranno sempre più di pixel e sempre meno di carne, questa umanità sarà un bene imprescindibile per esistere ancora.
Il mio obiettivo è condividere questo amore proponendo degli esercizi ludici che risveglino la capacità contemplativa attraverso lo stupore.
Nella mia quasi ventennale ricerca ho provato a risvegliare questa capacità, affinché le immagini diano beneficio a noi e non ad altri. Negli anni ho usato molti tranelli e la fotografia è diventata oggetto scultoreo, gioco, luogo. E nei collages di oggi prendo le vecchie stampe e le taglio, le sovrappongo, le copro di inchiostro o vernice, di righe, oppure decido di far nascere dai dettagli un’aura simile alle onde concentriche provocate da un sasso buttato in uno stagno. Creo topografie, o seziono antichi alberi per contarne gli anni.
Chi si sentisse violato in questo atto “iconovandalico” ricordi che non dissacro queste memorie, al contrario. Cerco per loro una nuova sacralità. Cerco i tuoi occhi.
A.D.R.